Ormai da alcuni anni il concetto di partecipazione è entrato prepotentemente a far parte del lessico ordinario legato alla cooperazione internazionale.
Archiviati i tempi in cui organismi ed esperti occidentali decidevano unilateralmente cosa fare, dove e come farlo si è iniziato a coinvolgere sempre più attori locali, beneficiari e stakeholder dei progetti, dapprima semplicemente richiedendo pareri e valutazioni, poi in maniera sempre più attiva, dando significato più pieno al concetto stesso di “cooperazione”.
I livelli della partecipazione
Il dibattito sui gradi e i livelli di partecipazione è aperto e molto vivace sia fra chi opera “in prima linea” sia a livello accademico, nella consapevolezza che, in questo come in tanti altri ambiti, non basti creare protocolli e check-lists per ottenere un effettivo e positivo coinvolgimento diretto di tutti gli attori in campo.
Anche nell’ambito complesso e multidisciplinare dello “sviluppo urbano” quello della partecipazione è un tema fondamentale; già dagli anni ’60 il coinvolgimento diretto dei cittadini nel processo decisionale e di trasformazione dell’ambiente inizia a farsi strada.
Nel 1969 Sherry Arnstein mette a punto la celebre “Participation Ladder”: una scala di criteri che descrivono dal gradino più basso (manipolazione) all’ottavo più alto (controllo da parte dei cittadini) i possibili livelli di coinvolgimento nel processo politico (Qui l’articolo originale).
Tuttora la scala di Arnstein, seppure esprima concetti generali e spesso difficilmente riconducibili univocamente a realtà complesse, è considerata un metro di misura fondamentale dei processi partecipativi, specialmente di quelli di “pianificazione partecipata”.
Di più, l’idea di una scala da “conquistare” gradino dopo gradino è stata recuperata e riproposta da numerosi studi o da organizzazioni che ne hanno modificato e adattato alcuni criteri preservandone però l’impianto generale.
E’ il caso, ad esempio, del “Public Participation Spectrum” della IAP2 (International Association for Public Participation) o delle ricerche di Roger Hart che sul finire degli anni ’90 esamina le potenzialità della partecipazione e del coinvolgimento dei bambini e dei giovani nello sviluppo delle comunità e delle città stesse.
Esempi dal sud del mondo
Abbiamo parlato finora di ricerche e buone pratiche nate, sviluppate e codificate fra nord America e Europa occidentale, in contesti normativi e urbani strutturati e consolidati, cosa succede invece in realtà maggiormente frammentate e spontanee come gli slum di molte città africane, latinoamericane e del sud est asiatico?
Bisogna innanzitutto riconoscere che la genesi spontanea di molti di questi insediamenti rappresenta di per sè un fortissimo livello partecipativo: parliamo spesso di interi pezzi di città interamente costruiti dai residenti stessi, di conseguenza il tema del coinvolgimento degli slum-dwellers è delicato e necessita di essere fortemente contestualizzato.
Allo stesso tempo è fondamentale tenere presente l’assenza di riconoscimento reciproco e quindi di collaborazione che spesso si verifica fra le comunità degli slum e le istituzioni o gli organi di governo della città; in questo caso i criteri sviluppati nelle nostre realtà “occidentali” perdono significato in quanto si basano su un sistema di relazioni codificato fra politica e cittadini.
La partecipazione nell’ambito dello sviluppo urbano o del miglioramento delle condizioni negli slum non è quindi un criterio astratto da applicare con schemi rigidi ma molto spesso è un valore già presente (spesso a livelli molto più elevati che nelle nostre città) che necessita semplicemente di essere riscoperto e valorizzato, favorendo in contemporanea l’inizio di un dialogo con le istituzioni.
Non è un caso quindi che molte delle metodologie partecipative più interessanti che si stanno affermando nella definizione degli interventi sugli slum urbani nascano da NGO locali, associazioni di residenti o da piccoli progetti di cooperazione piuttosto che da grandi organismi.
Tali metodi riguardano principalmente due ambiti distinti e allo stesso tempo fortemente interdipendenti fra loro:
- la mappatura e il censimento degli slum e dei quartieri informali, realizzata direttamente dai residenti attraverso diversi metodi, tradizionali o sempre più spesso basati su tecnologie GIS (global Information Systems) o su semplici applicazioni;
- la pianificazione vera e propria attraverso incontri partecipati e processi decisionali condivisi sia a livello di modifica e gestione dell’ambiente insediativo (urbano o più spesso di quartiere) sia riguardo l’aumento della resilienza e la gestione e mitigazione dei rischi ambientali e climatici (attraverso metodi DRR, DRA etc.).
I link qui sotto raccolgono una rassegna di esperienze specifiche sviluppate negli ultimi anni in uno e nell’altro ambito da diverse organizzazioni locali o internazionali, esperienze che in diversi casi hanno molto da insegnare alle nostre realtà e al nostro approccio all’ambiente costruito.
Imparare dagli slum – metodologie partecipative di data collection
Imparare dagli slum – metodologie partecipative di pianificazione
Federico Monica
Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.
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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale
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