Sulukule in turco significa torre dell’acqua ma per gli abitanti di Istanbul indica da sempre un luogo preciso: la “città degli zingari”.

Un villaggio più che una città, simile ai tanti che costellano le campagne di Romania e Bulgaria, con case di legno o mattoni di fango a un piano, piccoli cortili recintati e la vita che si svolge sulla strada.

Un villaggio considerato il più antico insediamento Rom d’Europa: si ritiene infatti che sia stato realizzato almeno 1000 anni fa, in epoca Bizantina.

Come accade ancora oggi i Rom si erano stabiliti in periferia: ai margini estremi di una città già allora enorme, proprio sotto le mura di Teodosio e a poca distanza dal quartiere ebraico di Balat.

In migliaia abitavano nelle case di Sulukule, popolavano le sue celebri taverne dove si dice che ogni notte risuonassero musiche zigane fino all’alba.

Un’enclave di spontaneità e libertà nel cuore di Istanbul, ulteriore tassello di una città meravigliosamente cosmopolita e vivace.

Sulukule però non esiste più.

Già negli anni ’90 il comune di Fatih impose la chiusura delle taverne (considerate luoghi immorali) privando i residenti della maggior fonte di reddito, poi dieci anni fa viene varato il Sulukule Rehabilitation project, un ambizioso progetto di riqualificazione urbanistica del quartiere che pretendeva di risanare una parte di città considerata poco consona al nuovo millenio.

Dietro l’apparente intento umanitario si nascondevano, come spesso accade, interessi speculativi: quel quartiere un tempo ai margini della città è oggi centralissimo e tremendamente appetibile per investimenti immobiliari.

Il progetto proponeva la “sostituzione delle malsane case di Sulukule” con moderni appartamenti, l’intento dichiarato era anche superare la dimensione di potenziale “ghetto” in favore di una maggiore mescolanza sociale.

La storia purtroppo è ben diversa: ai residenti sono stati assegnati alloggi popolari a oltre 40 km dal centro, il quartiere è stato raso al suolo e interamente sostituito da villette e palazzine palesemente destinate alle classi medio-alte della città.

Nessuna delle famiglie originarie poteva permettersi di ricomprare una casa nella zona e così Sulukule, il più antico insediamento Rom d’Europa, è diventato paradossalmente una “gated community”.

Le antiche strade di accesso al quartiere sono oggi chiuse con grandi cancelli automatici neri e una rete sormontata da filo spinato circonda tutto l’insediamento.

Ogni tanto in una casupola in plastica una guardia svogliata vigila questo assurdo confine fra una città fasulla e la realtà intorno.

Dal punto di vista compositivo l’intervento è studiato con grande cura e rispetta tutti i requisiti “classici” delle riqualificazioni: strade e spazi aperti che ricalcano il vecchio insediamento, fronti volutamente irregolari e giochi di volumi affiancati, tipologie e materiali che richiamano le tradizioni architettoniche locali della città.

Nonostante questo l’aspetto generale è tremendamente banale, monotono e in un qualche modo triste: come spesso accade gli interventi così ampi mancano di vitalità, l’irregolarità artificiosa diventa posticcia mentre il filo spinato fra le case e la strada fa il resto: una prigione dorata circondata dalla vita vera.

La vecchia Sukulule e il nuovo quartiere dopo il progetto di riqualificazione

E i residenti originari?

Solo due famiglie sono rimaste negli alloggi assegnati, in un quartiere sconosciuto e senza opportunità (al tempo neppure servito dalla rete di trasporti pubblici), gli altri si sono sparpagliati in insediamenti già esistenti o occupando poche aree ancora libere ai margini del centro.

Alcuni hanno fondato, insieme a organizzazioni e intellettuali, un’associazione che lotta contro la distruzione del quartiere e che ha ottenuto importanti sentenze a proprio favore, purtroppo inutilmente.

Non andate a Sulukule: non ne vale la pena, a meno che non vogliate toccare con mano i danni irreversibili che possiamo fare noi urbanisti e architetti, anche se animati dalle migliori intenzioni.

Non andate a Sulukule, ma se proprio vi capitasse di passare da quelle parti cercate bene perchè c’è una strada che ha resistito, chissà come, alla distruzione.

Palazzi fatiscenti alternati a povere casette di legno, panni stesi ovunque, bambini che giocano a pallone contro un bidone dei rifiuti; nulla di troppo diverso dal resto del quartiere, ma quando si gira una stretta curva la strada si fa sterrata, la circondano poche povere case a un piano affiancate da cortili, alcuni uomini stanno smontando il motore di un’auto, anziane signore dagli occhi duri sono sedute di fronte ad ogni casa.

La strada non ha uscita, mi fermo spaesato, una vecchia mi guarda e urla “Bu-urudun Bu-urudun”.

Non capisco ma mi indica con gesti secchi un campo incolto a sinistra, in cui un sentiero si inoltra fra erbacce e rifiuti ammucchiati.

Mi fido. Si costeggiano altre case, alcune bambine ridono in un cortile, una gallina scappa fra gli arbusti, il prato finisce contro un’altra strada occupata da un carretto pieno di ferrivecchi.

Altre donne mi osservano dalla finestra, una mi chiede qualcosa di incomprensibile.

La magia dura poco: appena oltre ricompaiono filo spinato, cancelli automatici, le monotone case in finto legno una uguale all’altra e i casottini delle guardie.

Una strada, venti case in tutto sono ciò che rimane dell’antica Sulukule, un luogo che avrebbe dovuto diventare patrimonio UNESCO e che è stato distrutto, perso per sempre.

Nel più banale dei nostri luoghi comuni Rom è sinonimo di ladro, ma a Sulukule chi è il ladro? chi il derubato?

Federico Monica

Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.


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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale

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