Con il termine Smart Cities, ultimamente abbastanza abusato, si è soliti indicare strategie che grazie alle opportunità offerte dalla tecnologia permettono di ottimizzare interconnessioni, servizi e scambio di dati all’interno delle città, massimizzando la sostenibilità ambientale e la qualità della vita nell’ambiente urbano.

Strategie necessarie e quanto meno urgenti visto il peso che città e metropoli hanno sulla produzione di inquinanti e sul degrado ambientale del pianeta.

La corsa alle città che sta interessando l’intero continente africano, con tassi di crescita urbana che spesso raggiungono il 5%, rende questo tema di particolare interesse anche in Africa.

Se da un lato iniziano a diffondersi ricerche e sperimentazioni interessanti, soprattutto dal South Africa, dall’altro assistiamo al proliferare di modelli discutibili, presi da contesti occidentali e trapiantati maldestramente.

Cercando ad esempio le parole chiave “smart cities Africa” sul web spuntano decine di immagini di città avveniristiche e un po’ kitsch in cui smaglianti grattacieli si stagliano su foreste rigogliose: una sorta di riedizione delle quattrocentesche città ideali in versione ipertecnologica e tropicale.

Bellissimo, ma le statistiche e la vita reale raccontano una storia ben differente: il 55% della popolazione urbana in Africa sub-sahariana vive infatti in condizioni di povertà e popola decine di slum e quartieri informali.

Il 55%: la maggioranza della popolazione.

Immaginiamo ora che Milano si trovasse improvvisamente con un milione di persone stipate in baraccopoli: nonostante le possibilità economiche, tecnologiche e organizzative di un’area metropolitana che ama definirsi “smart city” la città sarebbe in ginocchio.

Come pensare quindi a una soluzione in metropoli con molte meno risorse, scarsa capacità di attrarre investimenti, assenza di strutture organizzative efficienti e tassi di crescita vertiginosi?

Appare ovvio che una soluzione semplice e soprattutto a breve termine non ci può essere.

Appare altrettanto ovvio che è necessario confrontarsi con un fenomeno che esiste e che esisterà per i prossimi decenni; parlare di smart cities senza considerare questa questione significa fare esercizi di pura teoria.

Significa sognare città futuristiche, scintillanti e perfette in cui però la povertà è, per forza di cose, nascosta sotto il tappeto, in una posizione e in un ruolo sempre più marginale.

Significa, come talvolta accade, utilizzare il nome smart cities non più per indicare sistemi intelligenti di governo e sviluppo delle città ma come brand per rivestire di un’aura green e tecnologica “gated communities” da vendersi a migliaia di dollari al metro quadrato. Luoghi e quartieri che si contrappongono a un’ottica di inclusione urbana e che quindi non possono certo dirsi “intelligenti”.

L’errore alla base è quello di considerare queste città nettamente divise in due parti inconciliabili: una città ufficiale, destinata a prosperare e consolidarsi e una città informale, da cancellare o dimenticare.

La realtà dei numeri racconta però una storia diversa: la città africana contemporanea non può essere immaginata senza i suoi slum e i quartieri informali, che rappresentano una delle sue peculiarità più evidenti.

Di più: molte città africane contemporanee non potrebbero sopravvivere senza questi quartieri che ospitano funzioni e offrono servizi vitali al sistema urbano.

L’informalità urbana, da sempre considerata un semplice problema da risolvere, ha invece un suo ruolo ben preciso e può essere convertita in opportunità.

Quale può essere quindi una via “Africana” alla smart city?

Abbiamo individuato alcuni grandi temi che caratterizzano la città africana rendendola peculiare rispetto ad altre realtà e che dovrebbero diventare punti di forza di una futura strategia intelligente basata sulle realtà locali anziché su modelli importati:

  • Adattività e flessibilità: capacità di modificarsi per adattarsi a situazioni e criticità anziché contrastarle. In un contesto di cambiamenti climatici è una strategia “soft” contrapposta alla sovra-infrastrutturazione e alla modifica pesante del territorio;
  • Uso degli spazi: massima capacità di sfruttamento e ottimizzazione degli spazi urbani, assenza di spazi residuali inutilizzati, capacità di utilizzo degli spazi in maniera flessibile ed estremamente dinamica;
  • Riuso, recupero e riciclo: diffusa tendenza al recupero e al riuso non solo come attività economica di sussistenza relativa ad oggetti o rifiuti ma anche riguardo spazi, edifici o infrastrutture;
  • People as Infrastructures: sistemi di reti sociali, microeconomiche, di servizi informali e di relazioni in grado di sopperire alle carenze infrastrutturali o di offerta di servizi della città ufficiale.

Parlare di smart city senza considerare questi aspetti di straordinaria intelligenza collettiva che già proliferano in molte realtà urbane del continente significa imporre modelli elaborati altrove, su realtà molto diverse, come nella migliore tradizione coloniale.

Molti di questi temi contengono inoltre spunti interessanti anche per la definizione di possibili strategie innovative nelle nostre città europee.

Nelle prossime settimane approfondiremo nel dettaglio questi primi punti proponendo anche alcuni esempi concreti dalle città del continente per esplorare la percorribilità di una African way alla smart city…

Federico Monica

Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.


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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale

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