Una battuta in voga negli anni ’90, epoca di grandi interventi e sperimentazioni sulla povertà urbana, diceva che solo una cosa è peggiore di uno slum: uno slum pianificato.
Pianificare l’impianificabile è indubbiamente una cattiva idea, per lo meno con metodi studiati per realtà statiche e controllate che per forza di cose non potranno adattarsi a situazioni effimere e continuamente mutevoli.
Moltissimi studi hanno dimostrato che uno slum non è quasi mai il regno del caos assoluto ma è “governato” da sistemi di regole interne che spesso riguardano anche l’organizzazione degli spazi; gli interventi di pianificazione, oltre a fallire i propri obiettivi distruggono spesso questi fragili equilibri peggiorando ulteriormente la situazione.
Nell’osservare queste realtà urbane i primi a finire sul banco degli imputati sono solitamente gli esponenti delle èlites politiche locali, spesso impreparate, corrotte, avide di potere e denaro e poco inclini a curarsi dei problemi dei cittadini.
Un quadro desolante e spesso purtroppo realistico (non solo in Africa…) ma che sarebbe semplicistico additare come unica causa del perdurare di questi fenomeni: la povertà urbana è uno dei temi più complessi dell’epoca contemporanea e non solo, pensare che sia risolvibile esclusivamente con un po’ di “buona volontà” è ridicolo e tremendamente naif.
Un’impressionante serie di fattori, quali l’entità numerica del fenomeno, i tassi di crescita urbana, la cronica obsolescenza delle infrastrutture e la ancora ridotta efficienza e autorevolezza delle istituzioni, determinano inevitabilmente una sorta di blocco psicologico nell’affrontare un problema di così difficile soluzione e di così complessa gestione a lungo termine.
Il nodo della pianificazione in molte realtà urbane del sud del mondo appare quanto mai vicino a ciò che descrive Zygmunt Bauman:
La politica locale –e particolarmente la politica urbana– è ormai disperatamente sovraccarica, a tal punto che non riesce più ad operare.
E noi pretenderemmo di ridurre le conseguenze dell’incontrollabile globalizzazione proprio con quei mezzi e con quelle risorse che la globalizzazione stessa ha reso penosamente inadeguati.
Il “noi” impiegato da Bauman chiama in causa sia la mentalità “occidentale”, propinata con varie ricette come unico metodo globale per la risoluzione di problemi locali sia l’attitudine delle élites del continente a cui troppo spesso è mancata l’autonomia di pensiero e la lucidità di figure illuminate, tanto rare quanto osteggiate dalle potenze internazionali che ne hanno spesso orchestrato l’eliminazione fisica.
Come nel caso di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dal 1984 fino al suo assassinio, avvenuto nel 1987, che così disegnava il concetto di sviluppo per il suo paese:
La ricerca del benessere per tutti con uno sviluppo autonomo centrato sui bisogni di base, democrazia diretta, autosufficienza alimentare ed economia popolare con risorse endogene.
Benessere è prima di tutto fornire cibo, acqua, salute ed istruzione per la popolazione, è mutamento dei rapporti fra città e campagna, è liberazione delle donne dallo sfruttamento, è indipendenza culturale, è contare sulle proprie forze, è ridistribuire la ricchezza, anzi la povertà con la lotta ai privilegiati.
Concetti come l’economia popolare e la ridistribuzione della povertà sono talmente lontani dalla nostra cultura da risultare quasi incomprensibili, non hanno alcun nesso col marxismo nè tantomeno con gli improbabili redditi di cittadinanza oggi così di moda.
Sono semplicemente concetti “altri” che possiamo tentare di comprendere ma che si basano su presupposti differenti.
E forse è proprio questa la sfida che facciamo fatica a cogliere: cambiare prospettiva accettando di mettere in discussione il nostro sistema di pensiero spesso ancora novecentesco.
Riempiamo pagine e alimentiamo sterminati dibattiti su come classificare, inquadrare e in un certo senso formalizzare i fenomeni dell’autocostruzione, continuiamo ad accumulare fallimenti applicando percorsi “classici”, che tentano di rendere ufficiali alcuni aspetti dell’informalità.
Forse la strada da esplorare è quella opposta: non rendere formale l’informale ma informalizzare gli strumenti ufficiali di pianificazione delle città stravolgendo i concetti fondamentali su cui si basano teorie di urban planning nate in occidente e inadatte per contesti dinamici e costantemente precari.
Una sfida enorme, ma allo stesso tempo meravigliosamente avvincente…
Federico Monica
Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.
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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale
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