Abbiamo recentemente raccontato dei metodi  innovativi per contrastare le alluvioni messi in atto dal Municipio di Freetown, il problema  non è certo recente.

Undici anni fa, durante un sopralluogo a Kroo bay finivo in mezzo a una grande alluvione che solo per miracolo non fece vittime.

La sera stessa scrivevo queste poche righe.

Anche se le pagine di diario, rilette a distanza di anni, sembrano sempre banali, ho deciso di tenerle così come sono.
Perché quando vivi certe cose sulla tua pelle, quelle ti restano addosso e non ti abbandonano più…  

11 Settembre, Kroo bay è come ogni giorno caotica rassegnata e leggera, bambini giocano fra le baracche, altri più grandicelli camminano con un secchio sulla testa o rovistano fra i rifiuti in riva al fiume, alcune ragazze si lavano ridendo in uno dei pochi rubinetti che arrivano fin qui.

Di colpo qualche tuono rompe l’aria e le gocce iniziano a cadere fitte, sembra uno degli ultimi colpi di coda della stagione delle piogge che sta quasi per terminare ma in pochi minuti tutto si trasforma in tragedia.

Il fiume trascina a valle montagne di rifiuti che bloccano il piccolo ponte e si infila sulla strada, sopraelevata di mezzo metro rispetto al terreno.

Cascate d’acqua riempono il dislivello in pochi istanti formando un enorme lago che si insinua nei sentieri che portano alla baraccopoli con una velocità impressionante.

Sulla strada continuano a passare mezzi con l’acqua che copre ormai le ruote, Toyota dell’unicef o di tante NGO blasonate carichi di funzionari distratti che si guardano attorno svogliatamente.

Nel punto dove mi trovo l’acqua supera ormai il metro, l’isolamento di un vecchio frigorifero viene improvvisato come scialuppa di salvataggio per portare alcune donne anziane sulla strada dove l’acqua è alta solo trenta o quaranta centimetri.

Madri piangono disperate, non riescono più trovare i loro bambini, un gruppo di ragazze emerge dall’acqua gridando, la loro casa è stata spazzata via dall’impeto del fiume.

I conducenti di omalanke Posizionano i loro carretti in mezzo alla strada, prima del ponte in modo da impedire alle auto di passare, i ragazzi del quartiere si tuffano lasciandosi trasportare dalla corrente per tornare poco dopo con un bambino sulle spalle, una cesta piena di povere cose, una gallina o una capra.

Nessun poliziotto, nessun pompiere,nessuna ambulanza, kroo bay non esiste, la sua gente lo sa e sa che si deve arrangiare, la pioggia smetterà, l’acqua scorrerà via e riprenderà la vita di sempre.

E’ quasi buio quando il livello della piena inizia a scendere, il traffico è impazzito, ma sulla Siaka Stevens Street nemmeno un’auto: la strada è bloccata da militari, in lontananza un convoglio si avvicina, un ministro o qualche altro pezzo grosso torna nella sua villa per la cena.

E nel buio della mia stanzetta non posso far altro che pensare a chi ha perso casa, a chi sta tentando di dormire avvolto in panni bagnati, a chi ancora cerca un figlio, un amico, un parente che forse non ritroverà.

E penso al sorriso del ragazzo che mi allungava uno per volta alcuni bambini da mettere in salvo sul ponte: “Thanky White man, dis ivenin ju haef a big chop”  Grazie bianco, stasera ti toccherà fare una grossa cena…

Sbagliava, il ragazzo di Kroo bay: stasera non son riuscito a toccare cibo.

Diceva bene, il ragazzo di Kroo bay: eccomi qui, sdraiato su un comodo letto nella mia stanzetta asciutta e ben chiusa mentre la stessa pioggia continua a cadere sulle lamiere del tetto e sui corpi infreddoliti di chi non ha più un riparo…

Quanta amara e saggia verità nascosta nelle sue parole.

Federico Monica

Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.


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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale

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