Quando si parla di slum e povertà urbana si è soliti concentrare l’attenzione su problemi, emergenze, drammi, dimenticando la quotidianità e gli aspetti di normalità che pervadono anche questi insediamenti.
Abbiamo già parlato di come la bellezza e la cura degli spazi domestici siano un tema importante nella vita di molti slum-dwellers, vediamo invece (ovviamente generalizzando) come vengono vissuti gli atti del nutrirsi e del preparare i cibi.
Come tutte le attività quotidiane ad esclusione del dormire (e in alcuni casi neppure quello) i pasti vengono preparati e consumati all’esterno delle abitazioni, sicuramente per ragioni pratiche (le case sono quasi sempre troppo anguste e spesso torride) ma in molti casi soprattutto per tradizione e per la tendenza alla condivisione di momenti importanti della giornata.
La “dieta” di chi vive in uno slum segue, ovviamente, le tradizioni e le abitudini dei vari paesi e regioni di provenienza oltre a variare in quantità secondo le disponibilità economiche di ciascuno.
Sembra una banalità ma è necessario non generalizzare: gli slum non sono “regni della fame” in cui si sopravvive alla ricerca di un pugno di riso ma ospitano una realtà sociale e economica variegata e complessa, al pari di una qualsiasi città in cui convivono indigenti e “benestanti”.
In molti slum procurarsi il cibo, cucinarlo e consumarlo non è necessariamente un atto “privato”, circoscritto alla famiglia come in molte culture occidentali ma può diventare facilmente un “affare” collettivo, in cui hanno un ruolo strutture tradizionali come le confraternite o metodi di ridistribuzione del reddito come le tontine.
Non solo cibarsi ma anche cucinare è dunque un atto profondamente sociale che richiede spazi specifici: se la preparazione dei cibi può essere fatta davanti a casa, seduti sulla porta per quanto riguarda la cottura è invece necessario trovare aree più ampie.
In quasi tutti i paesi dell’Africa sub-sahariana i combustibili utilizzati per cucinare sono carbone o legna.
Attenzione, non parliamo solo dei residenti negli slum: a parte alcune realtà circoscritte in quartieri con reddito elevato in cui si utilizzano fornelli a gas (con bombola) o piastre ad induzione, la quasi totalità della popolazione urbana cucina su fornelletti a fiamma.
La drammatica deforestazione delle aree suburbane intorno alle maggiori città del continente ha portato a un aumento dell’utilizzo del carbone, creando spesso fiorenti microeconomie che coinvolgono molti residenti in aree rurali.
Al degrado ambientale dovuto al disboscamento si aggiungono i gravi problemi di salute causati dalla continua esposizione ai fumi di combustione: si calcola che uno dei più alti agenti patogeni nel continente africano sia dovuto proprio alla qualità dell’aria (già pesantemente inquinata dal traffico).
Molte volte i vicoli sono così stretti che un banale fornelletto impedirebbe il passaggio delle persone, i fumi poi andrebbero a invadere le strade anguste e gli interni delle case e renderebbero l’aria irrespirabile.
Per questo motivo moltissime comunità hanno individuato spazi in cui quotidianamente è possibile accendere fuochi e cuocere gli alimenti, vere e proprie cucine comunitarie che, lungo tutto l’arco della giornata, rappresentano il cuore pulsante degli insediamenti in cui ci si incontra, ci si riposa, si parla, si concludono affari, si discute delle tontine.
La geniale imprenditorialità dell’economia informale ha contribuito a dotare queste aree di molti servizi: è possibile acquistare cibo pronto o crudo, carbone, noleggiare un fornelletto o addirittura utilizzare fuochi già accesi da altri che li mettono a disposizione per ricavare un piccolo compenso.
Non di rado accade che la cottura (principalmente del riso) venga fatta insieme, fra più famiglie che poi si suddividono il cibo in proporzione a quanto portato, più frequentemente si formano anche in questo caso microeconomie informali in cui c’è chi cuoce e vende la semplice materia prima (il riso) che viene poi condito da ciascuna famiglia secondo le proprie possibilità.
Anche se lo spazio per tavoli e sedie quasi sempre manca, quello del cibarsi resta un momento preferenziale di incontro e socialità: ci si siede a piccoli gruppi, in famiglia o anche fra sconosciuti, ai bordi delle strade, sulle porte delle case o stringendosi sotto un riparo condiviso nella stagione delle piogge.
Spesso si condivide uno stesso piatto, si attinge dalla stessa pentola, si beve da un unico bicchiere.
Questi aspetti assumono un valore fondamentale durante i processi di upgrading o gli interventi su scala urbana: gli spazi utilizzati per cucinare possono infatti apparire come luoghi senza una vocazione ben precisa o come vuoti urbani da sfruttare per inserire nuove funzioni.
Si rischia quindi di limitare o eliminare aree nevralgiche per la quotidianità dei residenti.
Valorizzare questi luoghi, al contrario, magari inserendo semplici camini o fontane rafforza ulteriormente il senso di comunità, la microeconomia e, non ultima, la sicurezza, dal momento che concentrare in pochi punti circoscritti l’accensione di fuochi riduce il rischio di incendi che possono essere letali in luoghi affollati e labirintici come gli slum.
Federico Monica
Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.
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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale
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