To build or not to build? Questo è il dilemma con cui ogni NGO o organizzazione che opera nella cooperazione internazionale si è trovata prima o poi a fare i conti.
L’atto dell’edificare è indubbiamente affascinante ed è anche uno dei grandi spartiacque nell’evoluzione del genere umano, allo stesso tempo però si tratta di un’azione fortemente invasiva da non sottovalutare.
Non stiamo costruendo un semplice contenitore per le attività che andremo a fare ma stiamo realizzando un “oggetto” che sopravviverà ai nostri progetti, alle nostre funzioni e probabilmente anche a noi stessi…il tutto in un paese che non è il nostro e in cui, ci piaccia o no, siamo ospiti.
Stiamo inoltre trasformando in profondità un ecosistema: occupando e impermeabilizzando una superficie, interagendo con l’ambiente, creando un nuovo spazio fisico che può spostare baricentri e equilibri sociali consolidati.
Non considerare questi aspetti o valutarli con leggerezza porta a compiere diversi errori che possono avere ricadute pesantissime sia sui sistemi locali sia sulla stabilità delle organizzazioni.
Quali sono i cinque errori più comuni e rischiosi quando si costruisce in contesti di cooperazione?
1 – Le cattedrali nel deserto
Non è solo la megalomania a causare questo errore, molto più spesso si tratta invece di eccessivo entusiasmo: magari si è acquistato o si è ottenuta la concessione su un terreno piuttosto grande, costruire non costa tanto rispetto all’Italia, le idee sono molte, la voglia di fare anche, volontari e donatori non mancano e il disastro è fatto…
Strutture enormi rispetto alle necessità effettive, stanze e ambienti che rimangono tristemente vuoti o peggio edifici che impongono costi di gestione e manutenzione insostenibili e dopo pochi anni vengono abbandonati, insomma, proprio quello che si definisce cattedrale nel deserto, con conseguente spreco di risorse, denaro e deterioramento dell’ambiente.
2 – Il fascino della scatola da scarpe
Un altro errore è quello di considerare l’edificio esclusivamente un contenitore utile ad alloggiare o implementare funzioni e attività.
Tutto ciò che non è strutturale è visto come un inutile orpello o una sottrazione di risorse ad altre priorità.
Non stiamo parlando solo del lato estetico, che è fondamentale innanzitutto perché stiamo alterando un paesaggio (urbano o naturale che sia) con cui è importante interagire con attenzione e cura, ma anche perché spesso gli edifici di NGO o organizzazioni umanitarie sono presi come modello per realizzare altre strutture e creano involontariamente uno “stile”.
Allo stesso tempo i temi della sostenibilità ambientale, della realizzabilità tecnica e della funzionalità sono di primaria importanza e se sottovalutati possono portare a seri problemi durante la costruzione o una volta che l’edificio è completato e dev’essere utilizzato.
La cooperazione sta riempendo tanti paesi di edifici tanto utili quanto orribili: scuole e asili che sembrano caserme militari, ospedali simili a grigi campi di concentramento, scatole di cemento che diventano forni invivibili e che deturpano il paesaggio. Affascinante? No, per nulla.
3 – L’amico progettista
Chiedere un favore al cugino geometra, al volontario architetto, al neolaureato in ingegneria significa avere un progetto che può anche essere “a regola d’arte” ed eseguito con la massima professionalità ma con standard e soluzioni che possono essere totalmente inadatte nei contesti in cui andremo a costruire.
Le condizioni climatiche, l’accessibilità a servizi e risorse, i modi di costruire, le tecnologie e i materiali a disposizione sono fortemente diversi rispetto all’Italia e alcune soluzioni per noi scontate o banali risultano deleterie in altri contesti.
Ospedali dispersi nella savana con una distribuzione che presupporrebbe la presenza di grandi unità di trattamento dell’aria e di gruppi elettrogeni da decine di Kw, edifici a più piani in luoghi in cui lo spazio non manca (ma il cemento e le competenze per realizzare strutture complesse sì), scuole con aule dimensionate considerando il numero di studenti nelle classi italiane e chi più ne ha più ne metta.
Per non parlare del tema ambientale o dei materiali: edifici che dopo due anni rischiano il crollo perché non abbastanza protetti dalle piogge torrenziali, elementi che possono essere assemblati o sollevati solo con mezzi speciali difficili da reperire e costosissimi da noleggiare…
Ci è capitato di essere chiamati a risolvere alcune di queste situazioni, inutile dire che il poco risparmio iniziale sul progetto si è tramutato in un costo spropositato per ricostruire o riparare gli errori fatti…
4 – La tecnologia è il bene (o è il male)
Nei contesti di cooperazione i dogmi non dovrebbero esistere, eppure…
E’ il caso della fiducia cieca nelle potenzialità offerte dall’innovazione tecnologica: affidare la risoluzione di ogni problema tecnico agli ultimi ritrovati può essere affascinante e può portare a risultati interessantissimi ma (a parte il costo elevato delle componenti e dei trasporti) va attentamente considerato se esiste il know-how per mantenere in funzione impianti e sistemi o per fare le riparazioni del caso.
Allo stesso tempo occorre stare attenti a non cadere nell’uso indiscriminato di soli materiali e tecnologie tradizionali che devono essere padroneggiati, analizzati e valutati con cura in quanto potrebbero avere caratteristiche incompatibili con le funzioni previste e soprattutto potrebbero richiedere manutenzioni costanti, facendo lievitare i costi di gestione.
Insomma, un impianto di domotica avanzata nel cuore della foresta potrebbe non essere un’idea così strepitosa, ma neppure un bel tetto di paglia nel cuore di una metropoli…
5 – La sindrome del copia-incolla
Ultimo errore che andiamo a esaminare è l’affidarsi a “modelli” replicabili: questo edificio ha funzionato bene in quel progetto, perché non replicarlo in altri paesi? Ho visto sul giornale un progetto che mi è piaciuto, facciamo qualcosa di simile!
Così come si è molto attenti alla specificità di ciascun programma rispetto al contesto locale è necessario trattare allo stesso modo i progetti per le costruzioni: mai replicare anche se a poca distanza, tenendo conto che i primi sponsor di modelli replicabili sono proprio gli architetti!
Esistono certamente modelli a cui è possibile ispirarsi ma pensare di risparmiare risorse “riciclando” progetti già costruiti altrove, oltre che eticamente scorretto, è anche un grosso rischio dal momento che ogni luogo ha le sue peculiarità da valutare con attenzione.
Le possibili soluzioni
Esistono soluzioni o metodi per evitare questi errori o ridurre al minimo i rischi che comporta il costruire?
Ovviamente sì; il tema principale è sicuramente studiare con grande cura la fattibilità e la sostenibilità dell’intervento: così come i progetti di cooperazione vengono sviluppati seguendo processi rigorosi quali la Theory of Change, un dettaglio analogo andrebbe riservato alle opere che si intende costruire valutandone aspetti tecnici, ambientali, di relazione con le funzioni previste.
E’ importante quindi affidarsi a qualcuno che abbia competenze specifiche su contesti di cooperazione e sui paesi in cui si opera e che sia in grado di offrire non solo un progetto “tecnico” ma soprattutto consigli preziosi sulla fattibilità, la sostenibilità futura dell’edificio e i modi e i tempi più adatti per la sua realizzazione.
Nel nostro piccolo ci è capitato parecchie volte di essere contattati per progettare edifici e di aver poi convinto le ONG o le associazioni committenti a non costruire nulla prima di aver risolto e approfondito questioni di organizzazione, burocrazia o programmazione (l’acquisto/cessione dei terreni, ad esempio, è un tema estremamente delicato e pericoloso).
Poi ci sono criteri generali, che andrebbero tenuti in considerazione da chi progetta:
- Progettare e costruire a stralci: pensare cioè a edifici (anche complessi) che possano essere costruiti in piccole parti autonome, iniziando con unità minime per poi essere completati gradualmente a seconda del successo del progetto e delle nuove esigenze. —ESEMPIO— il nostro progetto per la scuola di Goma, pensata per poter essere realizzata a nuclei di tre aule completamente autonomi.
- Utilizzare il più possibile tecniche e tecnologie semplici, che non presuppongano macchinari o utensili specifici, analizzare materiali e tradizioni costruttive locali per verificare la possibilità di utilizzarli o integrarli con soluzioni migliorative. —ESEMPIO— il nostro progetto per la falegnameria di Dakar, realizzata con un budget ridottissimo e tecniche povere.
- Porre grande attenzione alla sostenibilità, studiando a fondo le condizioni climatiche (che quasi sempre rappresentano una criticità notevole) cercando di massimizzare la resistenza a fenomeni estremi e il comfort degli ambienti con soluzioni semplici. —ESEMPIO— il nostro progetto per il Museo del Deserto che recupera i metodi tradizionali di ventilazione interna e raffrescamento.
- Perseguire sempre la massima flessibilità sia a breve termine, favorendo ambienti utilizzabili in vari modi, multifunzionali o addirittura trasformabili, sia nel lungo periodo ipotizzando che le esigenze possano cambiare radicalmente e che l’edificio possa essere pesantemente modificato senza per forza doverlo abbattere interamente. —ESEMPIO— il nostro progetto per la Scuola di Matondo, pensata con un sistema di pareti mobili e in grado di essere facilmente ampliata già dopo un anno dalla sua costruzione.
A valle della corretta progettazione è fondamentale seguire con attenzione e competenza i lavori di costruzione e saper gestire gli imprevisti che, per forza di cose, si presenteranno; questa fase di direzione lavori è particolarmente delicata e richiede di impiegare sul campo tecnici specializzati per lunghi periodi o in alternativa di applicare metodi specifici per la gestione del cantiere a distanza.
In definitiva quello della costruzione nei progetti di cooperazione internazionale è un tema estremamente delicato, che rischia di infrangere equilibri fragili e che se non trattato con consapevolezza e competenza può risultare un problema difficile da gestire.
Per tornare al dilemma iniziale, se la scelta dev’essere “to build” facciamo in modo che si costruisca poco, bene e in maniera sostenibile.
Federico Monica
Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.
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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale
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