La discriminazione e l’esclusione urbana possono passare anche attraverso i campi apparentemente astratti delle parole e del linguaggio?
Quanti termini a prima vista neutri sono in realtà giudicanti o addirittura classisti? In questo articolo tentiamo una lettura del rapporto fra città e insediamenti informali attraverso le parole e i vocaboli che li definiscono.
Tutti hanno sentito almeno una volta parlare di favelas, termine nato in Brasile e entrato, al pari del francese bidonville, nel linguaggio comune in ogni parte del mondo per indicare una baraccopoli.
L’origine della parola tuttavia non c’entra nulla con l’ambiente urbano o la povertà: la favela è infatti un piccolo arbusto dai fiori bianchi diffuso in alcune regioni sudamericane e ha assunto il significato attuale perchè uno dei primi insediamenti spontanei a Rio de Janeiro fu realizzato su una collinetta chiamata appunto “Morro da Favela”.
Lo stesso vocabolo slum, nello slang londinese del XIX secolo significava semplicemente “spazio”, mentre bidonville (città di bidoni) fu ideata da un medico francese per descrivere un quartiere di Tunisi.
Questi sono i termini più utilizzati per indicare l’informalità urbana ma al loro fianco esistono centinaia di sinonimi in tutte le lingue del mondo.
Molte pubblicazioni scientifiche o divulgative che riguardano gli slum contengono una sezione che elenca i modi in cui questi insediamenti vengono indicati in varie culture, lingue e città del pianeta. Sono rassegne interessanti e indubbiamente pittoresche ma tremendamente incomplete e, soprattutto ingiuste.
Sappiamo ad esempio che in Perù si parla di Tugurios, in Argentina di Villas miserias, al Cairo si utilizza Aashwa’i, un termine astratto che in arabo sta a metà fra casualità e confusione mentre in Kishwaili, lingua franca dell’Africa orientale, si ripiega sull’onomatopeico mabanda.
In ognuna delle milionarie città asiatiche vi è un modo differente per indicare gli slum: in Hindi sentiremo parlare di Jihuggi (catapecchie), a Karachi di Katchi Abadis (baracca) ecc.
Il premio per la fantasia va probabilmente a Istanbul, metropoli in cui gli insediamenti abusivi vengono chiamati gegekondu che significa “costruito in una notte”, in riferimento a un’antica legge secondo la quale se una casa è edificata nel corso di una notte dovrà essere riconosciuta ufficialmente dalle istituzioni.
Come si può notare tutti questi vocaboli sono generici, non indicano tanto un insediamento quanto in generale una condizione di povertà, confusione, assenza di regole; molto spesso sono nomignoli coniati e utilizzati con disprezzo dai residenti dei quartieri “alti” per marcare una differenza, per sentirsi parte della città “buona”.
A volte è il potere stesso che sfrutta il potere dei nomi per veicolare una visione negativa di alcuni quartieri e facilitare operazioni di sgombero: è il caso dello slum di Old Fadama ad Accra, ribattezzato da alcuni media come Sodom and Gomorrah, un nome dispregiativo utilizzato spesso e volentieri da membri del governo e delle istituzioni interessati alla distruzione dell’insediamento.
Non stiamo parlando di toponimi quindi, ma di generalizzazioni nate non per indicare un luogo e le sue caratteristiche fisiche ma per additare ed enfatizzare la povertà urbana.
Questo accadeva e accade anche in Italia: gli insediamenti abusivi di Milano negli anni ’50 erano detti Coree, richiamando le immagini della guerra allora in corso nel paese asiatico mentre a Parma esistevano i capannoni: grandi fabbricati ultrapopolari in cui erano stati trasferiti gli abitanti delle classi sociali più deboli sgombrati dal quartiere oltretorrente durante il fascismo.
Gli edifici furono demoliti e i residenti trasferiti in case popolari oltre 50 anni fa ma ancora oggi “capannone” è sinonimo di persona rozza, ignorante, povera. Sarà vero che Verba volant ma a volte le parole (e le discriminazioni) durano ben più delle pietre e delle case.
Possono però esistere città, quartieri o semplicemente luoghi abitati senza un nome?
No.
Se si tratta di luoghi vivi, abitati da una comunità, vissuti nel quotidiano essi per forza avranno un nome. A maggior ragione se questi luoghi sono stati realizzati dai residenti stessi.
Ogni slum, dall’insediamento con centinaia di migliaia di abitanti al minuscolo gruppetto di poche case appena costruite ha quindi un nome, il suo nome.
In alcuni casi essi sorgono su aree già note e mantengono la toponomastica del luogo, la maggior parte delle volte però si tratta di zone disabitate, discariche, appezzamenti strappati al mare o a paludi, terre dimenticate da Dio e dagli uomini.
In queste situazioni si assiste a un fiorire sorprendente di nomi fantasiosi, disperati, ironici o di protesta, certamente mai banali.
Molti toponimi fanno riferimento alle caratteristiche fisiche degli insediamenti, come lo slum di Korogocho a Nairobi che significa confusione, o ai materiali da costruzione come i quartieri di Nylon a Douala o di Carton a Khartoum.
La celebre “Città dei Morti” del Cairo, uno degli slum più grandi del pianeta, ha questo nome in quanto i suoi residenti hanno occupato l’antichissimo cimitero della città tramutandolo in un quartiere unico in cui si alternano baracche, orti e imponenti mausolei funebri.
Ci sono poi nomi che sono indissolubilmente legati alla politica, alle lotte per l’indipendenza o contro l’apartheid.
Molti quartieri nati un po’ in tutta l’Africa negli anni ‘80 furono chiamati Soweto, in onore della nota banlieue sudafricana teatro di un drammatico massacro di manifestanti inermi, mentre il mito di Bob Marley portò al fiorire di decine di insediamenti denominati Jamaica o Kingston.
In Namibia la township in cui furono deportate forzatamente migliaia di persone durante l’Apartheid fu chiamata Katutura: il luogo in cui nessuno vorrebbe vivere, a Luanda un quartiere sorto durante il conflitto civile degli anni ’90 fu polemicamente denominato “Sarajevo”, richiamando un teatro di guerra lontanissimo ma in quel tempo mediaticamente molto più noto dell’Angola.
Talvolta il nome scelto evidenzia la straordinaria capacità di autoironia dei residenti: se la città intera addita l’informalità concentrandosi sulla povertà e sul caos allora il nome scelto può essere volutamente spiazzante: Ajegunle, slum di Lagos, in lingua Yoruba suona come “luogo dei ricchi”, ad Haiti è noto il quartiere di Citè Soleil mentre sono decine in tutta l’Africa i sobborghi autodefiniti “Paradise”, infine la “città di Dio” di Rio de Janeiro è stata resa celebre da uno splendido film di Fernando Meirelles.
In alcuni slum sono la religione o la bibbia a ispirare i toponimi: a Nairobi possiamo perderci nelle strade di Sion, mentre decine di Betlem o Betlehem costellano le metropoli sudamericane o africane.
Le grandi tragedie della storia ci hanno insegnato che togliere il nome alle persone è il metodo più efficace per disumanizzarle, negare il nome ai luoghi in cui vive una comunità o peggio, sostituirlo con vocaboli generici e dispregiativi è allo stesso modo un atto di disgregazione ed esclusione.
Al contrario scoprire e utilizzare i toponimi che le comunità hanno scelto per i propri quartieri è un modo implicito di riconoscere il diritto all’esistenza e restituire dignità a tanti residenti che contribuiscono ogni giorno a rendere più vario, vivace e innovativo il panorama delle città.
Federico Monica
Architetto e PhD in Tecnica e Pianificazione Urbanistica. Appassionato di Africa e fondatore di Taxibrousse mi occupo da oltre dieci anni di slum e insediamenti informali, autocostruzione, materiali e tecnologie povere.
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TaxiBrousse è uno studio che sviluppa progetti e consulenze di ingegneria, architettura, urban planning e ambiente per la cooperazione internazionale
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